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Tornati sull’asfalto continuiamo a salire, dal visore del casco assisto estasiato alla proiezione di un classico del cinema muto dal titolo “Il perenne duello tra Strada e Montagna”. Siamo al punto in cui la Strada che prima solcava decisa il fianco della Montagna diventa mano a mano più timida e la Montagna sempre più autoritaria.
Il contrasto tra l’ingombrante parete rocciosa sulla destra e il nulla alla sinistra infonde un senso di precarietà, reso più vivido dagli evidenti segni del terremoto del 2005. Finchè la strada – inevitabilmente – si arrende.
Continuiamo lentamente ad avanzare tra un groviglio di buche, macigni, veicoli incastrati e ogni tanto qualche frana con relativa deviazione off-road, ma dopo solo pochi km veniamo già raggiunti dai nostri nemici di sempre, Buio e Stanchezza. La Pioggia – ovviamente – si unisce alla festa.
Entriamo in Kaghan, il paese che da il nome alla valle; sotto il diluvio distinguiamo la sagoma di un ragazzo che ci convince facilmente a vedere il suo albergo, che risulta gradevole oltre ogni aspettativa. Concordiamo un ottimo prezzo e condizioni speciali, e qui viene scattata la più bella foto di tutto il mio viaggio: parcheggio il mio Transalp blu tra le pareti rosa della camera da letto.
Siamo già a 3 giorni di ritardo a causa della caduta, e anche oggi ci fermiamo prima del previsto. Non cammino bene ma in moto non ho grandi problemi, tuttavia il Babusar Pass lo sento ogni giorno sempre più lontano…
Mi sveglio che mi sento un leone; colazione sul letto ricoperto di scartoffie, mappe e tabelle con altezze e tempi di percorrenza: ripianifico la tabella di marcia con Agata. Oggi tappa breve, destinazione Naran, primo villaggio dentro al ghiacciaio e capolinea del trenino dei turisti; allochiamo 2 notti per avere tempo di una passeggiata. Da Naran la rotta si fa alquanto incerta, da tutti i dati e le informazioni che abbiamo raccolto stradafacendo non siamo riusciti ad avere un quadro chiaro della situazione: sicuro la strada è percorribile fino a Jalkhad all’estremità della valle, da dove partono le escursioni per l’ultimo dei laghi oltre i 3000m (Lulusar Lake), ma da Jalkhad in poi è terra di nessuno, l’asfalto finisce e resta una pista percorsa da qualche jeep 4×4 carica dei turisti più temerari che vogliono arrivare fino al Babusar Top. Il “valico” del Babusar Pass, di quello nessuno ne sa niente, esiste la KK Highway che lo aggira su un tappeto di asfalto. Quelli che dicono che la strada è percorribile, o parlano per sentito dire oppure hanno la faccia di chi tutte le mattine fa tranquillamente colazione coi coccodrilli, quelli invece di opinione opposta si oscurano in volto e ci fanno promettere che non ci azzarderemo in un’impresa tanto folle, e lo ripetono continuamente come un anatema anche mentre ci allontaniamo. In ogni caso, da Naran dobbiamo ripartire all’alba, cercare di raggiungere il Babusar Top prima di mezzogiorno per poter far fronte ad eventuali imprevisti e ridiscendere rapidi per ricongiungersi alla KKH all’altezza di Chilas. Riguardo a Chilas invece sono tutti concordi: “Non fermatevi a Chilas, se la attraversate di giorno è ok ma NON arrivateci la sera e NON fermatevi a dormire! C’è gente poco ospitale là…” (e mi torna alla mente un altro luogo comune dei nostri dialoghi pakistani: “Welcome! Il 98% dei Pakistani adora gli occidentali!”… che Chilas sia una roccaforte del restante 2%?); da Chilas proseguire dunque senza voltarsi fino a Gilgit. Se non ce la sentiamo, in qualunque momento possiamo sempre tornare indietro.
Siamo di nuovo in strada, c’è il sole e siamo in vantaggio rispetto alle carovane di turisti; proseguendo lungo il fianco della montagna raggiungiamo rapidamente le prime tracce del ghiacciaio. Come ogni strada con la montagna sulla destra, le curve a destra oltrepassano una cresta della montagna e si infilano in un insenatura, quest’insenatura mi hanno insegnato a scuola che è spesso dovuta allo scorrere dell’acqua durante lo scioglimento delle nevi estivo. E’ giugno: come dopo ogni curva a destra sai che ci sarà una curva a sinistra, in ogni curva a sinistra sai che ci sarà un guado.
All’inizio ci divertiamo a bagnarci le gomme, ma guado dopo guado la strada davanti a noi si insinua sempre più dentro il cuore delle montagne, e piano piano cresce l’attesa di un evento inevitabile: la curva a sinistra che “bucherà” il ghiacciaio. All’inizio era solo un po’ di neve ai lati della strada con l’acqua che scorre sotto di essa e bagna l’asfalto, ma piano piano l’acqua si trasforma in turbini e flutti e la neve si innalza in due pareti di ghiaccio; quel che resta della strada è solo un soggetto sottointeso. Ti fidi, sai che c’è lì sotto, ma… wow! [ Video ]
L’entusiasmo dura poco, il guado successivo ha il fondo ricoperto di rocce e acqua alle ginocchia: uno sbilanciamento a sinistra e il mio ginocchio logorato cederebbe al peso della moto, se penso che abbiamo il computer lì dentro… 6 persone sostengono e spingono la mia moto avvolta dai flutti.
Qui la situazione si fa interessante: ogni volta che tiro un sospiro inquadrando un guado nello specchietto, più che un senso di vittoria cresce un senso di oppressione. Ma perchè? Gli ostacoli non è sempre meglio lasciarseli alle spalle? Forse no… aspetteranno pazienti. Ecco l’origine di questo senso di pericolo crescente: più vado avanti e meno posso tornare indietro! Questo non lo avevamo previsto…
Proprio mentre sono sommerso dai dubbi, dietro la curva ecco Naran, in una piccola valle verde! Dovete sapere che come in Italia l’esodo estivo è verso le spiaggie, in Pakistan è sulle montagne; come le nostre spiaggie sono completamente attrezzate per far divertire il turista, le loro montagne lo sono altrettanto. E dunque Naran è traffico, alberghi, ristoranti, via vai di gente, fuoristrada in jeep ed ecursioni organizzate.
Tenda al PTDC e ci uniamo al flusso di turisti locali per ammirare lo strepitoso lago Saifil Muluk. O per lo meno pensavamo di unirci al flusso: i locali pagano 20 Rupie, gli stranieri 500; già troviamo assurdo pagare per vedere un lago (ma s’è mai visto?) dopo aver già pagato la corsa della jeep, ma il prezzo speciale 25x solo per noi ci sembra veramente sproporzionato, siamo gli unici stranieri in tutta la valle! Tuttavia si può sempre trovare un compromesso, e la bellezza mozzafiato del paesaggio appiana tutti i problemi.
Ma è già ora di ripartire: è finalmente giunto il momento di mettere in scena il valico del Babusar Pass!
E’ IN QUESTO MOMENTO CHE CI ACCORGIAMO DI AVER SUBITO UN FURTO: LA MACCHINA FOTOGRAFICA CON TUTTE LE FOTO DA ISLAMABAD A QUA. RESTANO SOLO QUELLE NELLA MEMORIA DEL CELLULARE…
Ripartiamo che la mattinata volge ormai al termine. Devo concentrarmi, arrivano le prime curve. Curva a destra (mmmh.. la ruota anteriore è ancora sgonfia), curva a sinis… “Oooh…cacchio!!” Mi fermo, metto giù i piedi e mi tolgo il casco in silenzio. Davanti a noi non c’è un guado, c’è una cascata! Scendiamo increduli, guardiamo davanti a noi, ci guardiamo in faccia, riguardiamo questa massa d’acqua provenire dal ghiacciaio alla nostra destra, scorrere impetuosa sul manto stradale avvolgendo tutto ciò che incontra per poi precipitare nel vuoto appena oltre il ciglio della strada, in un baratro senza fine. Alcuni macigni sulla strada sfidano la corrente alzando gran colonne d’acqua.
Eccolo qua, il momento della decisione, arriva beffardo dietro la prima curva. Che fare? Alle mie spalle, sulla via della fuga, una serie infinita di ostacoli ansiosi di avere la loro rivincita. Davanti a me, questo. E’ solo il primo della giornata, il ginocchio mi fa male e il Babusar è ancora lontano. Che sia l’ultimo avvertimento?
Restiamo mezzora buona ad osservare inebetiti il flusso d’acqua: il fondo stradale lì sotto è buono, ma l’acqua ha una forza impressionante e appena oltre il ciglio della strada fa un salto che… brrr! Non voglio nemmeno pensarci. Mi decido, dico sottovoce “vado” e accendo la moto. Agata mi guarda e non dice niente… ogni singolo giorno da quando sono partito devo prendere decisioni importanti, ma questa è una di quelle forti. Sono già in movimento, disegno una traiettoria immaginaria tra i turbini; la moto non si sposta ma l’onda d’urto fa impennare l’acqua ghiacciata che mi allaga gli stivali. Pochi secondi e sono già oltre; adesso posso guardarmi indietro. Cavoli, Agata è dall’altra parte!
Ora arriva la parte buffa, c’era una combriccola di locali che ci osservava nella nostra indecisione, e a questo punto uno di loro, un bambino, si alza, prende Agata per mano e la conduce tranquillamente oltre il guado, a piedi. Gli dobbiamo essere proprio sembrati strani, eh?
Bagnati fradici ci rimettiamo in viaggio, è quasi mezzogiorno, il momento in cui guadi sono alla loro massima portata e a Gilgit sicuro non ci arriviamo. “Che facciamo?” “Chè, abbiamo scelta?” Andiamo avanti.
E qui, arriva il mio premio.
E’ tardi, dobbiamo muoverci, se la decisione è proseguire allora tanto vale farlo senza incertezze. Guido fluente sulle curve divenute dolci in questa valle sempre più stretta, gli schizzi non mi intimidiscono più e gli indugi delle macchine sempre più rare e gli inadeguati pulmini Suzuki impantanati tra i flutti stipati di gente mi fanno sorridere. Noi, le jeep, e qualche raro 125 dei prodi bikers Pakistani proseguiamo arroganti, senza esitazioni. La strada smette definitivamente di essere tale e si adegua ai capricci della montagna: sterrati, frane, ghiaccio, neve e ponti di legno sospesi, da attraversare un veicolo alla volta. E ancora guadi e sterrati verticali. Ma mano a mano che sali la montagna non ti guarda più così dall’alto in basso, e i torrenti sulla strada si fanno via via sempre più esili. Ci siamo, stiamo espugnando le sue difese! Immerso nel flusso di questi paesaggi così selvaggi e spietati io provo sensazioni di libertà indescrivibili. Un furgone locale ci chiede “Where are you from? China?”
China?!?? Ooooh… caspita! Di botto realizzo dove siamo arrivati, in un angolo remoto del Pakistan in prossimità di un inaccessibile varco tra due mondi, e noi non apparteniamo a nessuno di essi. Vedono due esseri strani su di un veicolo da fantascienza e si chiedono: “da dove possono provenire?”, “non sono musulmani, questo è evidente” “di sicuro provengono da oltre queste invalicalibili montagne” “ma si, certo: sono i Cinesi!”…
No signori miei, veniamo da molto più lontano. E, ora, valicheremo queste montagne!
Ma – evidentemente – alla montagna questo proprio non le andava.
Arriviamo a Jalkhad, ora siamo in una specie di deserto, una piana ventosa ultimo luogo sicuro prima delle Terre di Nessuno. Case di argilla disposte lungo la strada polverosa. Parcheggio la moto e spengo il motore. Il Silenzio. Qualcuno si raduna e ci guarda. L’ombra della montagna è quasi su di noi e questo significa vento gelido fino alla prossima alba. Ci guardiamo in giro, le facce e gli indumenti sono tipici Pashtun, quelli che eravamo abituati a vedere in TV nei servizi su Bin Laden. Scorgiamo un gruppo di uomini che mangiano isolato in una stanza privata che ci fa cenno di avvicinarci. Sono un uomo importante e il suo seguito. Lui appare rozzo, ma la sua autorità è fuori discussione. Ci dice di essere il sovrintendente di queste terre, ci dice che siamo sotto la sua protezione, ci dice di accomodarci e mangiare, ci dice che la strada è “clear” con un ampio gesto che non ammette malinterpretazioni e ci dice che ha pagato per noi cena-notte-colazione-esevoleteancheilpranzo. Però ci dice anche di non proseguire oltre fino a domattina, ci dice che a una ventina di km da qui c’è un villaggio pericoloso… ma che qui siamo al sicuro. Chiude il pranzo con una “sigaretta Pakistana”, apre la porta e se ne vanno cedendo il posto a gelo e umidità. Finiamo di digerire e usciamo: davanti alla nostra porta un muro di persone ci aspetta, nulla di ostile, ma inquietante. Facciamo un giro prima del buio, metà del villaggio ci segue, l’altra metà è in cerchio ipnotizzata attorno alla moto. Rientriamo nella nostra stanza sempre sotto attenta osservazione.
Non so esattamente che cosa sia successo a questo punto, forse effetto dei fumi pakistani, forse solo suggestione, ma tutti e due abbiamo la stessa visione: fari di carri nella notte, voci concitate e kalashnikov. Riusciamo a ragionare lucidamente solo dopo aver chiuso la porta, la tenda è troppo trasparente e quegli sguardi troppo penetranti. La nostre paure fanno cardine su due punti: troppi i segnali di avvertimento dati da questa montagna, che forse cercava solo di proteggerci, e venti km sono davvero pochi mentre le voci corrono rapide. La conclusione di Agata è “Se leggessi sul giornale di due occidentali rapiti sulle montagne pakistane mentre alloggiavano tranquillamente in mezzo al nulla vicino a zone a rischio… penserei che se la sono andata a cercare”. Non fa una piega; il console a Islamabad ci ha tenuto a sottolineare che l’italiano rapito pochi mesi fa “era seduto proprio qui di fronte a me, sulla stessa sedia su cui sei seduto tu adesso”… La mia conclusione invece è: “Non credo succederà nulla di tutto questo, tuttavia è un futuro plausibile, e ora che lo abbiamo reso così vero… nessuno ci verrà a rapire ma noi passeremo lo stesso una notte angosciante”. “Quindi?” mi domanda un’Agata impossibile da tranquillizzare, “Quindi prendi lo zaino in fretta, il crepuscolo è già iniziato, siamo sul filo del rasoio!”. Suggestione o no, non ne valeva la pena; se ci ripenso ora torno alla stessa razionale conlcusione: siamo partiti per vedere il mondo, non per essere degli eroi. E in fondo chi lo sa: magari i carri quella notte sono arrivati davvero.
Giù in picchiata a fari accesi, sterrati, ponti e guadi, senza esitazioni, un errore adesso e restiamo congelati; sull’ultimo raggio di luce scorgiamo un albergo isolato su una collinetta, gente ospitalissima e senza kalashnikov. Prima doccia calda del Pakistan e colazione dei campioni. Oramai la sfida è finita, non c’è più energia. Ci diciamo “Torniamo a Naran a cercare la macchina fotografica e poi ci riproviamo”. A Naran la cerchiamo davvero, così bene ne troviamo le tracce ancora fresche: un turista sta girando da tutta la mattina per negozietti di elettronica cercando un caricabatterie per una Canon (per forza, quello ce l’abbiamo ancora noi!), guardacaso proprio fuxia, tombola! Appendiamo cartelli, ricompensa per la memory card, caricabatterie omaggio. Tutto il villaggio segue con entusiasmo l’evoluzione della vicenda e ci fermano per strada per chiederci notizie, ma è tutto inutile. E’ troppo tardi, la speranza di trovarla davvero ci fa sprecare anche l’ultimo giorno utile, non abbiamo più tempo per andare a nord. Il visto è in scadenza e ancora non sappiamo se abbiamo ottenuto quello indiano; nuove preoccupazioni in vista, non si scherza con queste cose.
Ridiscendiamo la montagna pieni di rimpianti, a Balakot dopo una notte di riposo vero quasi ci ripensiamo, ma infine scendiamo giù a valle. Islamabad è troppo lontana, tappa ad Abbotabad in un grazioso alberghetto (ma non è qui nei dintorni che dicono di aver preso Bin Laden?) dove inizia una nuova sfida da superare: per qualche motivo da ora in poi tutti crederanno che il nostro visto Pakistano sia scaduto e chiederanno l’intervento della polizia.
Ho perso, su tutta la linea; moto e ginocchio mostrano gli evidenti segni della sconfitta. Ma l’Himalaya è grande e la sfida è solo rimandata: India, visto di 6 mesi e molti meno kalashnikov. Tuttavia il Pakistan resterà per sempre tra i miei rimpianti …ma chissà: la terra è rotonda!
Hope you guys still alive and enjoying your journey.
I hope you remember us we met in Sus, Northern area of Pakistan 🙂
For sure alive and for sure we remember you 🙂
We are enjoying Pakistan so much! It’s definitely one of the best country in the world!!!