Skardu

Road to Skardu
Il visto è in scadenza, per la seconda volta.
E noi non riusciamo a decidere se vogliamo tornate a Islamabad o continuare a scalare montagne per poi scendere a capofitto nelle valli.
Decidiamo che il tempo deciderà per noi e così a 3 giorni dalla scadenza viriamo verso Est lungo una strada che non dovrebbe esistere. L’Indus nel fondovalle scorre così grigio, massiccio e veloce che sembra solido. Mi accorgo della sua natura di liquido solo nei vortici che risucchiano l’aria trascinandola all’interno di quella roboante massa d’acqua.

La strada è incastrata nella parete della montagna, scavata nella roccia: è stata intagliata una semivolta e noi ci siamo sotto, dentro. La montagna ci circonda. Alla nostra sinistra, solida e umida, sopra di noi massiccia e reale, sotto di noi una corsia di asfalto scassato che si tuffa, a destra, in uno strapiombo di qualche centinaio di metri da dove, dal basso, risale il costante tuonare del fiume.
La montagna di fronte scivola a capofitto nel baratro. Anche la nostra montagna appare così, vista di fronte? Stiamo correndo incastonati nella montagna. Questa strada non esiste, dovremmo rotolare come pietre trascinati dalla forza di gravità.

Ore e ore di roccia e sabbia. Villaggi arrampicati su spuntoni irraggiungili. Mi guardo intorno, cerco i sentieri, cerco le teleferiche. Non trovo nulla. Isolati. Eppure continuano, un giorno dopo l’altro, a coltivare il proprio appezzamento di terra, a veder nascere le capre e morire i propri anziani. Ignari del mio mondo che gli sfreccia di fronte sputando fumi di petrolio bruciato. Profondamente consci del passare dei giorni e dei cicli della natura. Uomini e donne legati alla terra, mentre io sono trasportata dal vento.

SkarduSkardu è Ladakh. Il Ladakh è Skardu. Terra di sabbia argento e cielo perennemente limpido e blu.
Galoppiamo attraverso il deserto. Si alza il vento e la sabbia. Il cielo diventa grigio in un istante e noi non riusciamo a parlare senza sentire granelli di terra scricchiolarci sotto ai denti.

Vorrei andare ovunque, vorrei percorrere tutte le valli fino in fondo, per poi tornare indietro. Così per gioco, perchè questa è la mia vita e non mi viene in mente nient’altro di più fantastico da fare. Come una bambina scelgo i luoghi dove giocare con entusiasmo e spontaneità. La gente comune mi guarda saltellare da un piede all’altro e scuote la testa. Io sorrido benevola.

Esploriamo la valle di Shiger, avanti oltre Kaplu, il lago di Sadpara. Siamo stanchi, ma troppo eccitati per poterci fermare. Sarà Serena a chiedere tregua. Perde benzina e olio. Video ] Presto incomincerà a perdere anche liquido dei freni. “Sono stanca” ci dice. E improvvisamente ci rendiamo conto di essere stanchi anche noi. E’ ora di tornare a valle.

L’inverno si stà avvicinando; il freddo mi fa sentire viva, mi ricorda che esisto, che ogni piccola parte di me è tangibile e vera. Ma è ora di andare, di attraversare Deosai Plain prima che cada la prima neve.

Deosai Plain sono un angolo deserto di paradiso. Un’altopiano tutto al di sopra dei 4000m, dove l’ossigeno è raro e con la pioggia diventa pesante e difficile da incanalare nei polmoni intirizziti dal freddo. Thomas la sera soffre un po’ e lo sento boccheggiare pesantemente mentre cerca di addormentarsi.
Il mattino dopo giochiamo, ci lanciamo in corse sfrenate con la moto, parcheggiamo in mezzo al niente e ci sediamo su una roccia girando su noi stessi guardandoci intorno. Niente. Soli. Solo grasse marmotte ci osservano passare fischiando come delle matte non appena inizio a correre a perdifiato verso di loro in un goffo tentativo di abbracciarle.

In the middle of Nowhere

Ogni 2 ore di guida circa incontriamo un check post della polizia. Moduli prefabbicati in plastica bianca a forma di igloo, calati dall’alto in mezzo al niente. 3 uomini lasciati lì a badare a se stessi e a registrare gli stranieri che passano.
“Quanti stranieri passano?”
“Pochi”
“E voi cosa fate?”
“Peschiamo.”

Noi continuiamo la nostra corsa, attraversiamo l’altopiano, scendiamo in una valle, la percorriamo tutta fino alla fine correndo lungo un fiume dal fondo di sassi e dalle acque limpide color blu notte, attraversiamo il fiume, saliamo in una valle laterale chiusa, torniamo indietro, entriamo in un’altra valle, la percorriamo tutta fra saliscendi e landslide, attraversiamo un altro fiume, non un semplice fiume: l’Indus.
Le ruote toccano l’asfalto nero e liscio della KKH Highway.
“E’ ora di tornare a casa.”
Ridiamo.
“Dov’è casa?” chiede Serena mentre scivola felice su un surreale tapis roulant steso in un paesaggio mozzafiato. Abbraccio Thomas e lo tengo stretto.
“Casa.” mormoro fra me e me.

Agatik