Lettera dall’India

Usciamo dall’edificio di cemento della dogana: suolo indiano.
Mentre Thomas accende la moto mi distraggo a guardare una scintillante macchinetta dell’acqua fredda, seguendone i tubi con gli occhi fino ad arrivare ai filtri impolverati. Su ognuno dei due filtri blu era stata appesa una collana di fiori arancioni di quelle che si usano per pregare.
– Ma si può, hanno benedetto i filtri dell’acqua! – dico allontanandomi.
Poi ci ripenso, torno indietro sui miei passi e ne bevo un sorso.
– E quindi… welcome to India! – mi dico fra me e me tirando un lungo sospiro di sollievo e disperazione insieme.


On the road of Orissa



Un pezzo di una lettera che ho scritto ad un amico qualche giorno dopo essere rientrati in India.

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Siamo in India, siamo ad Amritsar.
Ieri ero tremendamente imbronciata di star andando via dal Pakistan, tanto che abbiamo fatto un giorno di overstay per dichiarare al mondo la nostra insoddisfazione.
Non glien’è fregato un cazzo a nessuno.


Alla fine pero l’India è bella.
Arrivi di qua e ci sono tutti sti turbanti colorati che ti svolazzano intorno a destra e sinistra su motorini, biciclette, risciò, threewhelers e bullockcart.
L’India è un disastro e se tu ti rotoli in terra la gente ti guarda, scuote la testa e continua dritta. In Pakistan non puoi rotolarti per terra, l’Islam ti obbliga ad avere più contegno.
Io alle volte mi rotolo alle volte cammino con la schiena dritta. Nella vita ci vogliono entrambe le cose.
In India se cammini con la schiena dritta ti si arrampicano sulle spalle cani randagi, mendicanti senza gambe, vedove e bambini abbandonati. La schiena ti si incurva sotto al peso del disagio.
Un disagio pieno di colore, mettiamola così.


Quanto disagio che vediamo in moto, quanto disagio ai confini delle città…

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Agatik